Editoriale: Referendum e piccola politica

Nel villaggio globale, come è noto, la grande politica oscura la piccola politica. Il precipitare delle vicende internazionali intorno alla crisi economica indebolisce nell’attenzione il ricordo di due avvenimenti, non adeguatamente ricordati in questi mesi e legati da un filo rosso comune: il terrorismo.
Mi riferisco al rapimento ed all’assassinio di Aldo Moro, momento cruciale di tutte le riflessioni sulla democrazia italiana e sull’evoluzione della politica in questi ultimi trentacinque anni. Ed all’uccisione di Marco Biagi, di cui è appena ricorso il decennale nel 2012, mai abbastanza celebrato come discreto ed efficace costruttore di quella democrazia giusta, informata ai principi del socialismo, alla quale guardiamo con incancellabile speranza.
È da vedere se, in realtà, questa è piccola politica; senz’altro è quella più vicina alla sensibilità ed ai sentimenti popolari, e quindi più autentica. Marco Biagi rappresenta sempre più la figura del socialista democratico e riformista moderno: sobrio nell’immagine, quanto concreto e robusto nella sostanza, ancorché spesso travisato da certi esegeti parziali, presenti in special modo nel centro-destra, che trascurano la forte attenzione agli ammortizzatori sociali nel suo sistema di riforma. Attraverso la sua morte è emersa la contrapposizione fra violenza terroristica e positività riformatrice della sinistra, come forse mai era risultata evidente nel passato.
Purtroppo non possiamo escludere che, negli anni a venire, in base a quelli che saranno gli esiti della crisi della finanza e, più in generale, del capitalismo, vi siano ulteriori azioni finalizzate ad una lacerazione del tessuto democratico, anche se non così violente e traumatiche come nel passato. Ma di certo diventerà sempre più centrale di fronte all’opinione del paese il problema del lavoro, della sua riforma, della sua centralità nella cultura e nell’organizzazione di una democrazia moderna.
Lo strumento di questa evidenza della questione-lavoro può essere rappresentato dai referendum per abolire le cosiddette “riforme Fornero”, che hanno investito l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori e le pensioni. È verosimile, soprattutto con riferimento al ripristino dei diritti dei lavoratori, che lo Statuto voluto dai socialisti, con cui la Costituzione entrò nelle fabbriche ed in tutti i luoghi di lavoro, possa anche segnare il punto di riferimento per schieramenti in gran parte occasionali e strumentalizzati. Basti notare la presenza di Di Pietro, mai particolarmente sensibile sulle questioni riguardanti il mondo del lavoro, nel relativo comitato promotore, senza contare i tanti esempi di conversione, in questi oltre quarant’anni, degli eredi di quel Pci che non votò in Parlamento la legge 300 del 20 maggio 1970. Ma il sostegno, almeno alla campagna di raccolta firme per i quesiti referendari che si propongono di archiviare l’iniqua – perché poco concertata – politica sociale del governo Monti in tema di pensioni e lavoro, può rappresentare l’occasione per trasformare degli argomenti, affrontati prevalentemente da tecnici e professionisti, in temi di grande portata popolare che dovranno essere spiegati ai cittadini e sui quali si dovrà raccogliere partecipazione e consenso. Per un riformista, considerare l’ipotesi del sostegno alla raccolta delle firme per i due referendum, può comportare una preziosa occasione per aprire una discussione pubblica e spiegare quale riforma del lavoro e delle pensioni si deve realizzare; perché la nostra democrazia riveda, con più scrupolo e con piena partecipazione del sindacato, quello Statuto dei lavoratori che, insieme alla riforma previdenziale di Giacomo Brodolini, è stato per decenni il punto di riferimento della sinistra riformista italiana. Naturalmente, tutto questo vuol dire anche rimettere in discussione modi e presenze del sindacato nella società, per ridefinirne i ruoli, rinnovarne la capacità di rappresentanza, rafforzarne il consenso, facendolo diventare protagonista di quella partecipazione che rappresenta il nuovo modo di far vivere attivamente il mondo del lavoro.
Serve che i socialisti siano ancora una volta portatori di una volontà di riformismo attivo. La violenza del liberismo o il disinteresse dei tecnocrati verso le esigenze di una civile società non possono distogliere la politica da quello che deve essere il suo lavoro quotidiano: lasciare sempre aperto il cantiere della democrazia.

ANTONIO MATASSO

Intervista a Mattia Di Tommaso, candidato a sindaco di Roma

Mattia Di Tommaso, appena 27enne è un giurista esperto di diritti umani. Un sorriso contagioso e occhi scuri profondi che brillano ogni volta che spiega le sue idee. Ci diamo appuntamento in un bar a Capannelle, la zona dove abita da sempre. Giocherà certo in casa, ma sono tantissime le persone che, capendo la situazione, si limitano a brevi saluti e cenni di approvazione.

Compagno Di Tommaso, te lo aspettavi questo entusiasmo?

Sicuramente non di questa portata. Sono giorni che ricevo centinaia di messaggi, chiamate, email. Chi per proporre e suggerire qualcosa, chi per collaborare, chi, semplicemente, per comunicarmi il sostegno. Tutti, però, sono animati dallo stesso sentimento: partecipare a questa sfida, non rassegnarsi allo stato delle cose, provare a migliorare le condizioni di vita e ridare dignità alla politica.

Mattia, perché ti candidi a sindaco?

L’entusiasmo e l’irruenza dei giovani nella storia hanno sempre avuto il compito di rompere l’immobilismo e l’inerzia. Voglio mettere a servizio dei romani la mia passione, le mie idee e tutto il mio impegno. Sento il peso di rappresentare le istanze e i sogni della mia generazione. C’è un paradosso: la generazione dei nostri genitori ha vissuto meglio rispetto a quella dei nostri nonni. Noi non possiamo dire la stessa cosa. La società è regredita. La stragrande maggioranza dei giovani è laureata, specializzata, parla più lingue straniere, viaggia e impara con più facilità, eppure incontra difficoltà enormi a trovare un’occupazione dignitosa e in sintonia con le proprie aspettative e inclinazioni.

Come inizia la tua attività politica?

Premetto che in casa ho sempre respirato aria di politica, ma è a scuola prima e nell’università poi che ho iniziato a muovere i primi passi della rappresentanza. Sono stati anni molto formativi. Poi l’impegno è proseguito nella federazione dei giovani socialisti e nel Forum dei Giovani del Lazio. La militanza è stata una palestra di vita insostituibile.

Sei sempre stato socialista?

Dal 2001 ho fatto la mia prima tessera al partito socialista. L’ho rinnovata per dieci anni, quest’anno compreso. Se ci credi davvero in una idea non è facile cambiarla. Sono socialista non solo perché sono tesserato con il Partito Socialista, ma perché credo in alcuni valori fondamentali come la libertà, la giustizia sociale e l’uguaglianza. Non come slogan ma come stile di vita. Provo, e non sempre ci riesco, ad applicarli nella vita di tutti i giorni e nel rapporto con gli altri. Penso sia insopportabile una vita vuota, priva di valori ed ideali, per cui tutto risulta accessorio.

Con un aggettivo come descriveresti questa politica?

Ipocrita. L’esempio è la riforma elettorale. Dal 2006 parecchi politici, anche chi quella legge l’ha creata, sostenuta e votata si sono affannati ad andare in televisione a dire che era opportuno cambiarla, introducendo le preferenze restituendo, così, il potere di scelta ai cittadini. Sono cambiati 3 governi, tra pochi mesi scade la seconda legislatura e non vi è stata nessuna riforma della legge elettorale. In generale non ricordo una grande riforma strutturale negli ultimi anni.

Quale è un politico italiano che stimi?

L’impossibilità di dare una risposta a questa domanda è una delle ragioni della mia candidatura.

Affrontiamo il programma, iniziando dai giovani.

Sarà, ovviamente una mia priorità. Una delle emergenze dei giovani a Roma è quella abitativa: affittare o acquistare è sempre più difficile senza un intervento diretto delle Istituzioni. Ho in mente un progetto di housing sociale, che si propone di rendere disponibili 1.000 alloggi sul territorio romano. Si potrà partecipare ad un bando pubblico i cui requisiti sono un reddito Isee inferiore a 40.000 euro e un’età complessiva della coppia non superiore a 70 anni. Vi si potrà accedere attraverso la formula del ‘Patto di futura vendita’ o dell’affitto a canone calmierato (400 euro al mese per 70mq). La filosofia che anima questi interventi è quella di recuperare e riqualificare gli alloggi esistenti e la loro messa a disposizione in locazione a costi accessibili e realizzare nuovi alloggi con patto di futura vendita. Il tutto con una progettazione partecipata dei quartieri.

Ci parli della tua idea del reddito minimo?

Vorrei introdurre il reddito minimo di cittadinanza inteso come un reddito di entità tale da consentire alle persone di vivere in una propria abitazione e rendersi comunque autonomi dalla famiglia dopo la maggiore età e aiutando, quindi, ciascuno a soddisfare i propri bisogni di base (quali mangiare, avere una casa, vestirsi e acquisire determinati beni culturali di base) Il reddito minimo garantito è attualmente esistente in tutta l’Unione Europea a eccezione di Italia e Grecia. Lo scopo è quello di contrastare il rischio marginalità, garantire la dignità della persona e favorire la cittadinanza attraverso un sostegno economico. A Roma, per esempio, vi sono oltre 7000 dottori in giurisprudenza che sono obbligati a svolgere la pratica forense. L’80% di essi non viene retribuito pur essendo impegnato tutta la giornata in questa attività e non possono, pur volendo, dedicarsi ad altro. Non tutti si possono permettere di vivere, dormire, mangiare per quasi due anni a Roma senza un reddito. A loro chi ci pensa?

Parliamo di trasporti.

L’idea è quella di prolungare fino alle ore 24 la chiusura della metropolitana durante la settimana e non prevedere, invece, interruzione alcuna durante il week-end. Contestualmente aumentare il numero delle corse dei bus notturni, potenziare le linee ferroviarie regionali e ristrutturare le stazioni. Inoltre ho in mente un progetto in collaborazione con i taxi che consenta alle donne di muoversi liberamente, anche sole, di notte. Un maggior utilizzo dei mezzi di trasporto collettivi, già sperimentato con successo in numerose capitali europee, innescherà un circolo virtuoso del trasporto pubblico che, unitamente agli interventi per rendere più allettanti e sicuri gli spostamenti a piedi o in bicicletta, convincerà i cittadini romani a rinunciare alle proprie auto. Con l’occasione garantisco che continuerò ad utilizzare i mezzi pubblici anche in caso di elezioni. Non è credibile un amministratore che si muove per Roma con l’auto blu, nemmeno un minuto di traffico e arrivando tutto fresco davanti ai giornalisti inizia a parlare del problema-trasporti. Si potrebbe, infine, sperimentare il Velib di Parigi ovvero il programma pubblico di noleggio biciclette e di car sharing.

Qual è la tua idea di città?

Una Smart City, ovvero una città intelligente. E una città lo è se è tecnologica ed interconnessa, pulita, attrattiva, rassicurante, efficiente, aperta, collaborativa, creativa, digitale e green . La mia candidatura ha l’ambizione di introdurre un nuovo metodo di amministrare la città. Siamo pronti a rischiare, innovare, sperimentare, rivoluzionare.

Un pronostico?

Il nostro entusiasmo seppellirà il sistema.

G.F.

Addio ragazzo di campagna?

Se mai fosse possibile riconoscere meriti alla crisi economica che da cinque anni affligge il mondo occidentale, uno di questi sarebbe quello di aver indotto gli italiani a guardare in faccia la cruda realtà. Dopo un ventennio di millanterie su rivoluzioni liberali, tanto decantate quanto non realizzate, il nostro Paese scopre infatti d’esser stato defraudato della principale speranza che aveva accompagnato le sue famiglie nell’ultimo mezzo secolo, quella della progressione sociale. Sotto quest’aspetto tutti gli studi sinora condotti sono pervenuti alla stessa, impietosa conclusione: nella Repubblica Italiana l’estrazione sociale è orami divenuto il principale fattore discriminante nella determinazione del futuro di un giovane tra i venti ed i trent’anni. Se gli Anni Cinquanta avevano concretizzato il mito del ragazzo di campagna destinato a pervenire ai vertici della prosperità economica e della scala sociale, purché dimostrasse di possedere la perseveranza e le attitudini necessarie a sfondare, l’inizio del nuovo millennio sembra aver riproposto l’ennesima versione del gioco della sorte, per cui nascere in una famiglia impiegatizia od operaia sbarrerà nel novanta per cento dei casi le possibilità di migliorare la propria posizione, mentre l’estrazione medio- alta borghese garantirà all’opposto un generale mantenimento dello status quo ante. Quella dell’immobilismo sociale è una piaga che sta abbattendosi su milioni di giovani italiani, rischiando di comprometterne decisamente il futuro, e con esso, le concrete prospettive di ripresa economica e di rigenerazione sociale. Eppure, per un paradosso tipicamente nostrano, questo fenomeno continua a non essere affatto preso in considerazione, se non per esser oggetto di facili sarcasmi o d’inutili scene di vittimismo. Dai bamboccioni di Padoa Schioppa e di Brunetta, per finire con i choosy di Fornero, sembra quasi che ai giovani debba esser attribuita per intero la responsabilità del tracollo generazionale in cui l’Italia sta lentamente strangolandosi. Trattasi di una facile generalizzazione, strumentale all’esigenza, molto avvertita dal ceto politico italiano, di lavare i propri rimorsi di coscienza, che rischia oltre tutto di prestarsi a semplicistiche operazioni di deresponsabilizzazione delle stesse vittime, storicamente quanto mai inopportune in qualsivoglia contesto sociale. Si finisce in tal modo per occultare il reale quadro della situazione in cui, lungi dal poter scaricare il peso delle responsabilità sulle spalle dell’uno o dell’altro, sembra invece possibile poterlo distribuire equamente tra tutti i protagonisti di quest’impietosa vicenda. Un’analisi di questo fenomeno non può che prendere l’avvio dalle linee ideologiche adottate dalle forze politiche che si sono susseguite al potere negli ultimi vent’anni. E discutere d’ideologie è in questo caso quanto mai opportuno, dato che sul fronte della scala sociale e del mondo giovanile, ambedue gli schieramenti hanno dimostrato una totale assenza di concrete politiche, preferendo viceversa abbandonarsi ad obsoleti slogan, dietro cui celare una volontà di non cedere di un solo pollice davanti ad imprescindibili necessità di cambiamento, qualora si trattasse di rimettere in discussione status ritenuti immodificabili. Sotto questo profilo, il primato dev’essere indubbiamente riconosciuto al centrodestra. Nonostante le panzane narrate nel corso del ventennio berlusconiano, tutte prodighe di promesse per la prossima rivoluzione liberale, i partiti della destra italiana hanno confermato di caratterizzarsi per una netta propensione al conservatorismo economico e sociale, declinando una versione del liberismo di reaganiana memoria, inteso quale semplicistica demolizione dello Stato sociale, considerato un dannoso centro d’inutili sperperi, specie con riferimento al sistema di politiche di supporto ai ceti più disagiati. Peccato che nemmeno Reagan avesse mai sognato di appoggiare un meccanismo di corporazioni economico-sociali quale quello italiano, unico al mondo per il livello di autoregolamentazione e privilegio, e rivelatosi il principale elemento di mortificazione al merito ed alla competenza. Ne è derivato il paradosso di una destra italiana che, pur affermando d’esser liberale, è stata disposta, come la querelle della recente keggi sulle liberalizzazioni ha clamorosamente attestato, a sacrificare i più elementari principi di concorrenza e meritocrazia sull’altare del privilegio di casta. D’altronde, se il centrodestra ha dimostrato di ritenere superfluo lottare per un cambiamento realmente liberale, sinora i movimenti di centro-sinistra non hanno esitato anch’essi a mettere da parte la questione giovanile. Se è innegabile che tale area abbia supportato il mantenimento delle strutture a sostegno del diritto allo studio giovanile, ed abbia emanato, con il Decreto Bersani del 2007, il primo testo di legge teso ad aprire un mercato professionale quanto mai asfittico, è altrettanto evidente che esso non è stato capace di superare il morbo del “qualunquismo”, da cui è stato affetto negli ultimi decenni. L’ossessione per una presunta intangibilità di normative, quali quella dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, necessitanti invece di un adeguamento al mutato contesto storico e sociale, così come il compiacimento, troppo spesso dimostrato, per un egalitarismo ad ogni costo sfociato in una negazione del merito, hanno prodotto nella gioventù italiana guasti altrettanto profondi di quelli ingenerati dal conservatorismo del centro destra. È in un simile contesto, privo di qualsivoglia azione concreta tesa a supportare le giovani generazioni ed a permettere il loro ingresso nella società adulta, che si collocano gli infraquarantenni dell’Italia di oggi. Giovani uomini e donne che faticano a diventare grandi, finendo spesso per dover indossare i panni degli eterni Peter Pan, membri di una generazione chiamata a dover subire gli oneri di un benessere di cui ha visto ben poco. Eppure nemmeno loro sono esenti da colpe. Se confrontate con i coetanei del resto del mondo, le nostre nuove leve scontano gravi carenze di preparazione e di resilienza. Poco disposti ad impegnarsi nello studio, i giovani italiani sono tuttavia spesso convinti che un posto sia loro dovuto, in primis dallo Stato, dimenticando che proprio l’idea del pubblico impiego come agenzia di sistemazione ha condotto il nostro debito a vertici che saranno loro stessi chiamati a sopportare. Scarsamente disposti a far sacrifici e ad allontanarsi dalla propria città d’origine, essi dimenticano che è proprio sul sacrificio e la determinazione che si sono edificate le fortune dell’Italia del Boom. Sempre pronti ad indicare nel prossimo il capro espiatorio, sono quasi mai propensi a fare autocritica, o ad impegnarsi a lottare per il mutamento. Ciò premesso, è assurdo imputare loro la completa responsabilità del disastro degli ultimi anni. La scarsa competitività dei nostri giovani sul mercato internazionale è frutto di una scuola e di un’Università incapaci di rispondere alle esigenze dell’odierna realtà globale, dove un ruolo primario viene assegnato alla conoscenza delle lingue ed all’uso degli strumenti informatici e matematici, oltre che poco attente alla promozione del merito. Il prodotto è una società soffocata da lacci corporativi, che ritardano per anni l’ingresso nel mondo del lavoro. Si tratta del frutto di una classe politica che ha sprecato vent’anni di crescita economica sull’altare di pretestuosi conflitti ideologici, lasciando andare in malora una delle economie più ricche al mondo. Di fronte all’inevitabile impoverimento cui i giovani sembrano esser predestinati, s’impone allora la necessità di un’involuzione di rotta, sinora trascurata, ma ormai indefettibile se si voglia evitare la catastrofe greca. La questione giovanile deve cessare d’essere un facile strumento di campagna elettorale, pronto ad accantonarsi una volta vinte le elezioni di turno, per entrare invece a pieno titolo nell’agenda di governo. Senza scadere in un intervento straordinario, una risposta dovrebbe invece essere articolata in maniera organica, andando a fondo nelle questioni sopra esposte. Si deve promuovere una concreta attuazione delle riforme nel mercato del lavoro, eliminando realmente la piaga delle corporazioni e del precariato strutturale che sta lasciando senza futuro un’intera generazione, non senza abbandonare nel contempo l’idea di un posto fisso garantito per l’eternità, anomalia italiana che ci ha resi non competitivi agli occhi del mondo. Si deve dar corso ad una reale riforma dell’istruzione scolastica ed universitaria, capace non soltanto d’adeguare l’offerta formativa alle richieste del mercato globale, ma anche di abbattere le resistenze ad un controllo effettivo sull’efficienza del lavoro del corpo docente, anche a costo di spezzare gli inevitabili ostruzionismi dei sindacati. Sono riforme ormai ineludibili, pena l’implosione di un’intera generazione. E con questa sfida dovrà confrontarsi il socialismo italiano nel prossimo decennio. Il movimento è chiamato ad un compito delicatissimo, forse il più ingrato nella scena politica italiana, ma in cui potrà offrire una prospettiva socialdemocratica a generazioni cresciute nell’ignoranza di un’alternativa al binomio berluscononismo-comunismo. Un’offerta di tal tipo, che sappia coniugare la lotta contro le discriminazioni socio-economiche con la promozione della meritocrazia, è destinata a trovare grande accoglienza presso le nuove generazioni, purché venga tempestivamente tradotta in un concreto pacchetto politico. L’alternativa è inquietante, e già allunga i propri raggi inceneritori, presagi di una possibile nuova alba fascista. E costituirebbe un amaro epilogo per la storia repubblicana italiana, se il buon ragazzo di campagna, desideroso di conquistare il mondo, tornasse ad esser confinato tra le nebbie del mito.

GIUSEPPE GIGLIOTTI

Donne: troppe violenze, pochi diritti

Ogni anno in Italia centinaia di donne subiscono violenze e maltrattamenti. Precisamente sono novantotto le donne uccise dall’inizio del 2012. Cifre che dovrebbero spaventare, che dovrebbero far riflettere sul significato che ha assunto nel nostro Paese il binomio violenza-donna. Numeri che raccontano, con estremo rigore logico-matematico, una realtà aumentata drammaticamente nel nostro contesto sociale. Come si spiegano questi dati? Come è possibile che nonostante la diminuzione progressiva di molti reati, quasi una donna ogni due giorni sia vittima di violenza? Quali sono le cause di queste violenze che sono veri e propri crimini, omicidi, anzi “femminicidi”?
Traguardi importanti per le libertà femminili sono stati raggiunti nel corso degli anni, fortunatamente: il referendum sul divorzio del 1974, la riforma del diritto di famiglia del 1975, la legge sulla tutela sociale della maternità e sull’interruzione di gravidanza del 1978, la cancellazione dell’attenuante per “delitto d’onore” nel 1981, la legge contro la violenza sessuale nel 1996, la legge contro la violenza nelle relazioni familiari nel 2001, la legge sullo “stalking”nel 2009, per citarne alcune. Ma le leggi da sole non bastano perché forse la violenza di genere trascende l’emancipazione femminile. Non è un caso infatti se una violenza su due avviene nelle tre regioni del Nord, Piemonte, Lombardia e Veneto, dove l’occupazione femminile è più diffusa e maggiori sono le opportunità per le donne di una autonomia economica e sociale. Non che le donne del Mezzogiorno vivano una realtà migliore. Per loro lavorare è addirittura un’eccezione: secondo i dati dell’Istat nel secondo trimestre del 2012 il tasso d’occupazione tra le under 30 è appena al 16,9% ed il divario tra la retribuzione e la parità di ruolo è stridente.
Una cosa però è certa: la violenza sulle donne è una violazione dei diritti umani ed è in primo luogo un problema degli uomini. Può sembrare paradossale o assurdo, ma purtroppo non lo è. Quando le donne sono vittime di violenza, il problema non è loro. Sfortunatamente, lo diventa. Ma il vero problema della violenza di genere è di chi la crea : vicini di casa, conoscenti stretti, colleghi di lavoro o di studio, familiari. Uomini per l’appunto.
Pochi giorni fa , dopo 18 lunghi mesi e la mobilitazione di molte donne, l’Italia ha firmato a Strasburgo, la Convenzione del Consiglio d’Europa contro la violenza di genere. Trattandosi però di una norma di diritto internazionale per poter entrare in vigore e dunque essere vincolante, è necessaria una legge di autorizzazione alla ratifica. Un traguardo importante ma al momento non pienamente raggiunto.
Che cosa si può fare allora nel frattempo ? Intanto è importante agire su più piani: informare e sensibilizzare, promuovere attività di prevenzione e di educazione ai sentimenti, rafforzare la collaborazione tra gli enti e le strutture territoriali, moltiplicare e sostenere i centri antiviolenza, immaginare, perché no, spazi urbani a misura di donna, come sostenuto recentemente da molte professioniste nel corso dello scorso World Urban Forum 6.
Ma questo non è sufficiente. Perché oltre ad essere spesso oggetto di violenza, noi giovani donne siamo quasi sempre escluse da qualsiasi opportunità economica, sociale e soprattutto politica. “Non mi piacciono le quote rosa, ma quello che le quote rosa fanno” ha affermato recentemente Viviane Reding, vice presidente della Commissione Europea, che proprio in queste ore ha proposto di introdurre regole comuni per imporre la presenza di un numero maggiore di donne nei consigli di amministrazione delle grandi società europee. Il mancato riconoscimento dell’importanza e del contributo femminile riguarda infatti troppi luoghi dell’esperienza moderna: lavoro, istruzione, salute e soprattutto rappresentanza politica. E si, perché nel Parlamento italiano, nelle istituzioni locali e nei luoghi della decisione le donne sono ancora una presenza minoritaria.
La parità di genere non è dunque un obiettivo tecnocratico ma politico e sociale, che richiede non soltanto l’elaborazione di nuovi diritti o la garanzia di nuove opportunità, ma soprattutto la diffusione di una nuova cultura del rispetto delle soggettività femminili e della parità di genere, che non releghi la donna ad uno stereotipo ormai passato, ma la renda protagonista dei cambiamenti e delle sfide che il nuovo millennio ci ha posto: in primo luogo quella di una democrazia paritaria. Il mio augurio è che il prossimo 25 Novembre ci sia davvero qualcosa da festeggiare.

MARIA CRISTINA PISANI

Palermo, i socialisti si raccontano per i centoventi anni del Psi

I socialisti si raccontano. E si contano. A Palermo, alla Sala Rossa di Palazzo dei Normanni, in occasione del Convegno sui 120 anni del PSI, il 6 ottobre scorso. Alcuni parlano di solitudine (di oggi) dei numeri primi (di ieri); per altri non è invece una questione matematica, ma di un partito decapitato con una storia unica alle spalle. Da raccontare, appunto. E replicare, al di là dei numeri. Dopo il supposto rampantismo è ora il tempo maturo della riflessione – così sembra – e di ritornare. Alla spicciolata fino a ieri; con maggiore consapevolezza da oggi.
La Sala è quella Rossa, colore dalle monocromie di sostanza: arterie e vene, intelligenze e coraggio dei tanti uomini e delle tante donne che c’hanno creduto. E che lì sotto, sotto quelle bandiere, ci sono pure morti. Centoventi anni di storia, di partito e d’Italia, di battaglie sociali e civili che hanno segnato epoche e trapassi. E lì in mezzo sempre nomi e memorie.
Il convegno è stato organizzato dalla segreteria regionale del partito e a fare gli onori di casa è stato il coordinatore regionale Antonio Matasso, che nel suo intervento ha tracciato una linea netta scegliendo come criterio guida i sindacalisti d’area uccisi dalla mafia e i socialisti siciliani dirigenti che hanno dato prova di buon governo alla Regione e scomparsi di recente.
«Il racconto di questi centoventi anni – esordisce Matasso – non è esaustivo, ma i nomi, alcuni, ne sono tasselli irrinunciabili». E il ricordo va a Placido Rizzotto, di Corleone, ucciso dalla mafia nel 1948 (presente il nipote che ne porta il nome); a Epifanio Li Puma, di Raffo, ucciso nel ‘48; a Salvatore (Turiddu) Carnevale di Sciara, ucciso nel ‘55; a Carmelo Battaglia di Tusa, ultimo sindacalista ad essere ucciso dalla mafia (è il 1966), per poi passare dai Fasci Siciliani, al Cln, alla Costituente, a Palazzo Barberini, tra scissioni e vocazioni autonomiste dal Pci.
E poi loro, i politici regionali. Luigi Granata, assessore regionale all’industria (‘88-‘91), segretario regionale del Psi (’76-’78) e capogruppo all’Ars, scomparso nell’inverno del 2011; Aldino Sardo Infirri (presente il figlio Franco) di Castell’Umberto, nel messinese, scomparso la scorsa estate, assessore regionale alla sanità (‘83-’87) e vicepresidente della regione nell’‘86-’87. E poi, ancora, Filippo Lentini (presente la figlia), assessore regionale dal ’61 al ’66, vicepresidente dell’Ars e capogruppo del Psi, morto nel 2009.
Il 6 ottobre attorno al tavolo delle ricorrenze i nomi dei socialisti di sempre. Giovanni Barillà, componente della segreteria regionale negli anni Ottanta; la moglie Enza Catalano, assessore a Palermo negli stessi anni; Roberto Sajeva, segretario regionale della Federazione dei Giovani Socialisti; Alessio Campione, dirigente della federazione di Palermo in quel periodo; Manlio Orobello, sindaco del capoluogo (unico socialista nella sua storia) nel ’92-‘93; Turi Lombardo, già assessore regionale alla cooperazione e ai beni culturali dall’‘88 al ’91, che, tra ricordi e rimpianti, apre la porta della prospettiva: «Immaginate cosa era il partito prima… Ma siamo fra quelli che pensano che andrà meglio». E già, cos’era il partito prima? Parlare di questi centoventi anni reca con sé il retrogusto di quale (apparente) sentimento? Nostalgia? Riscatto? Matasso ci tiene a precisare che il socialismo in Europa oggi non è un fatto nostalgico perché o è partito di maggioranza o guida l’opposizione. E in Italia? «La presenza del Psi è marginale – afferma il coordinatore regionale – ma il tentativo è proprio quello di ristrutturarlo per renderlo simile a come già è nel resto d’Europa». I centoventi anni come un trampolino: i socialisti massa critica in passato per esserla, ancora, nel futuro.
Non si è parlato di Tangentopoli, ma solo dei grandi sindacalisti e dirigenti socialisti. Un modo per prenderne le distanze? Matasso è categorico: «In centoventi anni di una vicenda storica, Tangentopoli, pur col suo baccano, è stata una fase che non ha aggiunto nulla all’identità e ai valori del socialismo. È una pagina relativamente recente, ma i rilievi fatti a quella classe dirigente non reggono il confronto con quel che avviene oggi. E poi Fiorito era tra coloro che gettavano le monetine contro Craxi al Raphael… Allora si finanziava il sistema dei partiti, oggi i conti personali».
E su partiti e storia è pure intervenuto Antonino Blando, ricercatore presso l’Università di Palermo: «I partiti non hanno più storia e allora di cosa parli? Solo di diatribe personali. Con il distacco dal demos la politica non esiste più. I dirigenti, segretari, sindaci, assessori, militanti, gente che credeva nella funzione pedagogica della politica e nel ruolo del partito sono stati tanti. Ricordarli tutti servirebbe non a tuffarsi nella nostalgia ma a dimostrare come la politica si fa a tanti livelli e come i partiti siano stati una grande agenzia di selezione della classe dirigente e di semplificazione delle domande politiche». Ed aggiunge: «Occorre chiedersi che spazio c’è per una politica socialdemocratica…». E la domanda finale, che è un punto di partenza, rimane, forse scontata ma complessa, l’unica possibile: cosa vuol dire essere socialisti oggi? «Siamo una forza politica – cònclude Matasso – che deve e può rappresentare le istanze di giustizia sociale». Da qui si è partiti e da qui si vorrebbe ripartire.
.

ANTONINO CICERO