A dispetto della baraonda suscitata intorno ai possibili punti di dibattito per l’Italia che verrà, una questione sembra essersi già delineata quale punto caldo della prossima legislatura. Ci si riferisce al mutamento della legge sulla cittadinanza, attualmente imperniato sul cosiddetto principio dello ius sanguinis, per cui l’acquisto automatico di tale diritto viene ricollegato all’appartenenza ad un’ascendenza italiana. Si tratta di un criterio bocciato senza mezzi termini come incivile dallo schieramento di centro-sinistra, che ne ha fatto l’oggetto di una campagna abolizionista, al fine di sostituirlo con il diverso principio dello ius soli, grazie al quale l’accesso alla cittadinanza verrebbe garantito in virtù della mera nascita sul territorio italiano.
Sebbene in prima battuta possa apparire confortante una simile omogeneità in una realtà politica che negli ultimi vent’anni non ha certamente brillato per uniformità di pensiero, v’è tuttavia da chiedersi se sia possibile adottare uno schema mentale così rigido, in un campo pregno di ripercussioni potenzialmente esplosive, senza aver prima aperto un dibattito interno al popolo di sinistra. Detto in altri termini, la riforma della legge attualmente vigente è davvero un imperativo categorico? A parere di chi scrive, la risposta è no, sulla base di una serie di considerazioni che verranno illustrate qui di seguito. In una trattazione della materia dei diritti di cittadinanza a favore degli immigrati non si può non partire dalla questione del presunto razzismo che si celerebbe dietro la posizione di chiunque si dimostri avverso al dogma della necessaria riforma.
Per i sostenitori di tale mantra, sarebbe discriminatorio non concedere ai figli degli immigrati un automatico accesso a tale posizione chiave del nostro ordinamento, poiché ciò equivarrebbe ad emarginarli in eterno dallo spirito nazionale, tramutandoli inesorabilmente in corpi estranei. Una simile affermazione potrà anche apparire suggestiva agli occhi di molti, soddisfacendo il loro intimo bisogno di non esser additati come mostri razzisti, fornendo nel contempo un facile strumento per zittire eventuali opposizioni, e non a caso è stata fatta pendere sinora come una spada di Damocle sul capo di chiunque abbia osato contestare nel dibattito interno alla sinistra la crociata contro la legge sulla cittadinanza. Peccato che, ad una rapida analisi, essa dimostri una totale carenza di contenuti. Giova ricordare che, nella realtà concreta, lanciare accuse necessita di una base probatoria, tanto più quando essa implichi il rischio di uno stigma sociale quale quello del razzismo. L’accusa di un’esclusione dei figli d’immigrati dall’accesso alla cittadinanza sarebbe fondato qualora essa si traducesse in un’ assoluta ed automatica preclusione all’acquisizione in questione. Ma il testo normativo in vigore smentisce completamente quest’assunto. La l. 91/1992 si limita difatti a ricollegare tale acquisto alla nascita e residenza in Italia sino alla maggiore età, nonché alla manifestazione della dichiarazione di volerla acquisire entro un anno dal compimento del diciottesimo anno. Questo meccanismo potrà anche non essere gradito, ma non può essere certamente bollato come razzista, visto che non si traduce in alcuno sbarramento. Essa esprime semmai un principio di grande civiltà, cui la sinistra sembra essere ormai divenuta completamente sorda, ma che nondimeno continua ad ergersi a garanzia della sopravvivenza del nostro ordinamento: il collegamento del possesso della cittadinanza all’accettazione dei valori democratici scaturiti dall’esperienza storica europea. Trattasi di una questione focale, a parere di chi scrive destinata a costituire in Occidente il principale campo di battaglia sul piano dei valori costituzionali, e sui cui si dovrebbe aprire un sereno tavolo di dibattito, senza preclusioni di sorta. Perché tacciare d’inciviltà chiunque intenda ricollegare la cittadinanza a qualcosa di più che un semplice possesso di status non soltanto è una condotta intellettualmente sciocca e moralmente indegna, ma tradisce anche una profonda ignoranza del significato profondo che sottende al diritto in questione. Cittadinanza non equivale infatti ad un semplice cumulo di diritti e di doveri, non è un semplice attestato impresso in scartoffie amministrative, ma esprime l’appartenenza ad una comunità dotata di propri valori cui si deve aderire per poter esserne parte. Ed è proprio in questo che l’inconsistenza del discorso giocato a sinistra rivela la propria fallacia. Affermare che l’invocazione di radici cristiano-ebraiche nella cultura europea altro non è se non uno specchietto per le allodole utilizzato dalla destra per legittimare un’ipotetica riconfessionalizzazione della nostra società conterrebbe una grande verità, purché fosse accompagnato da una susseguente difesa dei valori posti a base della laicità statale, che costituisce la maggiore conquista ideologica del mondo occidentale.
Ma i partiti dell’area opposta alla destra sembrano purtroppo aver completamente smarrito questo discorso, attaccandosi ad un’aprioristica difesa di un’idea di neutralità che nasce viziata proprio perché rifiuta di difendere il contenuto essenziale del nostro patto costitutivo. Essere titolari del diritto di cittadinanza implica difatti per chiunque il dovere di abbandonare tradizioni e costumanze che risultino incompatibili con i valori fondanti del nostro ordinamento, principi dietro i quali si nascondono secoli di dolorose lotte e di martiri. E’ il prezzo che tutti vengono chiamati a compiere nel momento stesso in cui accettano di essere cittadini europei. È vero che nella realtà dei fatti moltissimi italiani ed europei sono contrari agli ideali della parità di genere o della libertà sessuale, tuttavia è innegabile che il controllo sociale esercitato nei loro confronti è tanto più stringente quanto più esacerbato è il loro tentativo di sovvertire l’ordine esistente, percepito come nemico di elementi essenziali del vivere comune. Sennonché nella mentalità dominante a sinistra questo meccanismo di difesa viene meno qualora le violazioni dei valori laici vengano ad esser commesse da immigrati, in nome di un malsano senso di colpa verso il passato coloniale che induce a perdonare loro quanto non è tollerato dagli oriundi, quando proprio nei confronti dei primi bisognerebbe esercitare una maggiore spinta all’adeguamento. Sebbene si voglia chiudere volontariamente chiudere gli occhi, per evitare d’esser marchiati di razzismo, la triste realtà è che le comunità d’immigrati tendono a preservare il proprio codice etico proprio attraverso lo sfruttamento di questa concezione di tolleranza, che si rivela malsana nel suo non richiedere reciprocità. Perchè sarà giusto ritenere il concetto di cittadinanza slegato dall’idea di un popolo inteso quale gruppo etnico, i cui tragici risvolti hanno causato la scomparsa di milioni di persone nell’ultima guerra mondiale, ma è altrettanto sacrosanto esigere dai nuovi arrivati l’assimilazione dei valori ritenuti legittimi sul nostro territorio. E ai tanti profeti di sventura, che amano salmodiare la tragedia della discriminazione, sarebbe utile sottolineare come il pericolo di un suicidio degli ideali laici, insiti in queste campagne, non sia tanto remoto. Senza tralasciare le tragiche vicende di Sanaa ed Hina, psicologicamente e fisicamente maltrattate per anni all’interno delle proprie comunità ed infine massacrate perché colpevoli di voler essere occidentali, è interessante notare che in Belgio gli esponenti delle comunità musulmane, detentori di un diritto di cittadinanza acquisito proprio in virtù di questa unilaterale apertura, hanno fatto eleggere nei dintorni di Bruxelles esponenti del Partito Islam, che si propone d’instaurare nel Paese la sharia islamica.
Innanzi a simili propositi, sarebbe opportuno chiedersi se l’Eurabia invocata da Oriana Fallaci, l’eretica più vituperata dalla sinistra italiana, sia poi così lontana dall’essere frutto di vaneggiamenti. Lungi dall’essere una semplice espressione democratica, queste condotte segnano infatti un tradimento dei valori di rispetto cui pure le comunità musulmane, oggi le principali in espansione demografica, dovrebbero essere portavoce, dimostrando quanto assurda sia l’idea di offrire il diritto più prezioso a persone che in perfetta malafede ne fanno il pilastro di un sovvertimento dell’ordinamento esistente. In questa prospettiva, la previsione vigente dimostra allora la propria piena valenza: ricollegare l’acquisto della nostra cittadinanza ad un periodo formativo che coincide con l’educazione scolastica consentirà difatti ai figli degli immigrati di assimilare i valori del nostro ordinamento non soltanto formalmente, ma anche psicologicamente, permettendo loro d’interiorizzare condotte mentali spesso assenti nel contesto d’origine, ma che definiscono l’identità italiana ed europea. Appare allora opportuno procedere con cautela in affermazioni arbitrarie sull’obbligo di modificare la legislazione sull’immigrazione, senza prima essersi degnati d’aprire un dibattito interno all’opinione pubblica, che dia voce anche a quanti, pur riconoscendosi nei programmi di quest’area, vogliano però difendere i principi di laicità. Permettere alla destra estrema di monopolizzare questa tematica, apparendo quale unica paladina della laicità, non soltanto è un’offesa alla memoria di quanti per uno Stato realmente neutrale hanno pagato con la propria vita, ma rischia oltretutto d’indurre l’opinione pubblica, come accaduto nei Paesi Bassi sta ora accadendo in Belgio, a seguirli nell’abbandono di atteggiamenti d’apertura verso gl’immigrati per reazione a quello che viene giustamente percepito come un attacco alla propria identità. Se proprio si volesse condurre una battaglia di civiltà, sarebbe semmai opportuno per Bersani o Napolitano spendere parole decise a favore dei diritti di categorie di cittadini, cui andrebbe per ragion di cose data la priorità, quali gli omosessuali o coloro che vegetano in condizioni comatose senza aver potuto scegliere come impostare la propria fine. L’ipocrita timidezza adottata riguardo il primo punto e l’assoluto silenzio adottato sul secondo costituiscono allarmanti segnali di uno smarrimento esistenziale dell’area di sinistra, che non lasciano presagire nulla di buono per il futuro.
GIUSEPPE GIGLIOTTI