Il rituale della lotta politica è stato per decenni, ma forse anche per secoli, dominato dal messaggio: «grandi difficoltà ci attendono, ma con l’aiuto di tutti ce la faremo». Che si trattasse di promettere lagrime, sudore e sangue o di domandare se si preferissero i cannoni al burro, dai leader ci si aspettava un rituale capace di scaldare i cuori e spingerli oltre qualunque ostacolo (o barricata, che dir si voglia). La forza di questo paradigma retorico, negli anni, lo ha fatto vivere ben oltre le guerre direttamente guerreggiate e i momenti gloriosi e coinvolgenti. Chiunque abbia frequentato congressi e manifestazioni politiche conserva nel petto il ricordo degli scenari tratteggiati nelle relazioni introduttive. I grandi e foschi avversari, la necessità che ognuno portasse il suo apporto e così via. Un corollario essenziale di questi ragionamenti era che la vittoria stava forse a portata di mano, ma certamente era tutt’altro che sicura. Nessun politico avrebbe mai commesso l’errore di dirsi certo della sconfitta degli avversari.
Si riteneva, non a torto, che la convinzione del risultato già acquisito avrebbe sottratto energie al proprio schieramento. Si pensava che i dubbiosi e i pigri si sarebbero sottratti al voto senza una motivazione ultimativa e fortissima. I partiti non si potevano presentare come troppo sicuri; essi dovevano sembrare bisognosi dell’aiuto di ognuno e insicuri del loro destino. Del resto, quando un intraprendente uomo di comunicazione scrisse negli anni ‘60 sui manifesti “La Dc ha venti anni”, gli italiani (e tra loro, i socialisti) glossarono che fosse ora di deflorarla, aggiornando rapidamente i termini della politica di scambio. Oggi assistiamo al rovesciamento totale di questa logica consolidata. Che Berlusconi abbia iniziato la sua carica contro gli avversari dichiarando e ripetendo ogni giorno che un fronte di “moderati” non più guidato da lui, con il recupero di Fini e Casini, è certamente prossimo alla vittoria, appare abbastanza scontato. Il Cavaliere deve rimettere in carreggiata un esercito in fuga, mostrando la possibilità della vittoria, anche al prezzo di cedere lo scettro ad altri (ed il nome di Monti non sembra quello più probabile). Meno si capisce l’ansia con cui Alfano si affanna a delegittimare i sondaggi che danno il Pdl in caduta libera ed a dichiarare, insieme al suo poco affidabile stato maggiore, la certezza che il suo partito tornerà ad essere il primo, nonostante le sempre più forti minacce di scissione dagli ex An.
L’unica spiegazione che rimane per questi insani rituali di vittoria è che, in assenza di altri contenuti, ci si affida a uno dei tanti geniali pensieri di Ennio Flaiano. Se è vero che gli italiani sono pronti ad accorrere in soccorso del vincitore, come è avvenuto al tempo in cui il centro-destra era ancora compatto, cosa di più efficace del seguitare a proclamarsi tale? Tuttavia, Flaiano ha anche scritto: «datemi l’abbraccio del lebbroso, ma risparmiatemi la stretta di mano del cretino».
ANTONIO MATASSO