Ogni anno in Italia centinaia di donne subiscono violenze e maltrattamenti. Precisamente sono novantotto le donne uccise dall’inizio del 2012. Cifre che dovrebbero spaventare, che dovrebbero far riflettere sul significato che ha assunto nel nostro Paese il binomio violenza-donna. Numeri che raccontano, con estremo rigore logico-matematico, una realtà aumentata drammaticamente nel nostro contesto sociale. Come si spiegano questi dati? Come è possibile che nonostante la diminuzione progressiva di molti reati, quasi una donna ogni due giorni sia vittima di violenza? Quali sono le cause di queste violenze che sono veri e propri crimini, omicidi, anzi “femminicidi”?
Traguardi importanti per le libertà femminili sono stati raggiunti nel corso degli anni, fortunatamente: il referendum sul divorzio del 1974, la riforma del diritto di famiglia del 1975, la legge sulla tutela sociale della maternità e sull’interruzione di gravidanza del 1978, la cancellazione dell’attenuante per “delitto d’onore” nel 1981, la legge contro la violenza sessuale nel 1996, la legge contro la violenza nelle relazioni familiari nel 2001, la legge sullo “stalking”nel 2009, per citarne alcune. Ma le leggi da sole non bastano perché forse la violenza di genere trascende l’emancipazione femminile. Non è un caso infatti se una violenza su due avviene nelle tre regioni del Nord, Piemonte, Lombardia e Veneto, dove l’occupazione femminile è più diffusa e maggiori sono le opportunità per le donne di una autonomia economica e sociale. Non che le donne del Mezzogiorno vivano una realtà migliore. Per loro lavorare è addirittura un’eccezione: secondo i dati dell’Istat nel secondo trimestre del 2012 il tasso d’occupazione tra le under 30 è appena al 16,9% ed il divario tra la retribuzione e la parità di ruolo è stridente.
Una cosa però è certa: la violenza sulle donne è una violazione dei diritti umani ed è in primo luogo un problema degli uomini. Può sembrare paradossale o assurdo, ma purtroppo non lo è. Quando le donne sono vittime di violenza, il problema non è loro. Sfortunatamente, lo diventa. Ma il vero problema della violenza di genere è di chi la crea : vicini di casa, conoscenti stretti, colleghi di lavoro o di studio, familiari. Uomini per l’appunto.
Pochi giorni fa , dopo 18 lunghi mesi e la mobilitazione di molte donne, l’Italia ha firmato a Strasburgo, la Convenzione del Consiglio d’Europa contro la violenza di genere. Trattandosi però di una norma di diritto internazionale per poter entrare in vigore e dunque essere vincolante, è necessaria una legge di autorizzazione alla ratifica. Un traguardo importante ma al momento non pienamente raggiunto.
Che cosa si può fare allora nel frattempo ? Intanto è importante agire su più piani: informare e sensibilizzare, promuovere attività di prevenzione e di educazione ai sentimenti, rafforzare la collaborazione tra gli enti e le strutture territoriali, moltiplicare e sostenere i centri antiviolenza, immaginare, perché no, spazi urbani a misura di donna, come sostenuto recentemente da molte professioniste nel corso dello scorso World Urban Forum 6.
Ma questo non è sufficiente. Perché oltre ad essere spesso oggetto di violenza, noi giovani donne siamo quasi sempre escluse da qualsiasi opportunità economica, sociale e soprattutto politica. “Non mi piacciono le quote rosa, ma quello che le quote rosa fanno” ha affermato recentemente Viviane Reding, vice presidente della Commissione Europea, che proprio in queste ore ha proposto di introdurre regole comuni per imporre la presenza di un numero maggiore di donne nei consigli di amministrazione delle grandi società europee. Il mancato riconoscimento dell’importanza e del contributo femminile riguarda infatti troppi luoghi dell’esperienza moderna: lavoro, istruzione, salute e soprattutto rappresentanza politica. E si, perché nel Parlamento italiano, nelle istituzioni locali e nei luoghi della decisione le donne sono ancora una presenza minoritaria.
La parità di genere non è dunque un obiettivo tecnocratico ma politico e sociale, che richiede non soltanto l’elaborazione di nuovi diritti o la garanzia di nuove opportunità, ma soprattutto la diffusione di una nuova cultura del rispetto delle soggettività femminili e della parità di genere, che non releghi la donna ad uno stereotipo ormai passato, ma la renda protagonista dei cambiamenti e delle sfide che il nuovo millennio ci ha posto: in primo luogo quella di una democrazia paritaria. Il mio augurio è che il prossimo 25 Novembre ci sia davvero qualcosa da festeggiare.
MARIA CRISTINA PISANI