Se mai fosse possibile riconoscere meriti alla crisi economica che da cinque anni affligge il mondo occidentale, uno di questi sarebbe quello di aver indotto gli italiani a guardare in faccia la cruda realtà. Dopo un ventennio di millanterie su rivoluzioni liberali, tanto decantate quanto non realizzate, il nostro Paese scopre infatti d’esser stato defraudato della principale speranza che aveva accompagnato le sue famiglie nell’ultimo mezzo secolo, quella della progressione sociale. Sotto quest’aspetto tutti gli studi sinora condotti sono pervenuti alla stessa, impietosa conclusione: nella Repubblica Italiana l’estrazione sociale è orami divenuto il principale fattore discriminante nella determinazione del futuro di un giovane tra i venti ed i trent’anni. Se gli Anni Cinquanta avevano concretizzato il mito del ragazzo di campagna destinato a pervenire ai vertici della prosperità economica e della scala sociale, purché dimostrasse di possedere la perseveranza e le attitudini necessarie a sfondare, l’inizio del nuovo millennio sembra aver riproposto l’ennesima versione del gioco della sorte, per cui nascere in una famiglia impiegatizia od operaia sbarrerà nel novanta per cento dei casi le possibilità di migliorare la propria posizione, mentre l’estrazione medio- alta borghese garantirà all’opposto un generale mantenimento dello status quo ante. Quella dell’immobilismo sociale è una piaga che sta abbattendosi su milioni di giovani italiani, rischiando di comprometterne decisamente il futuro, e con esso, le concrete prospettive di ripresa economica e di rigenerazione sociale. Eppure, per un paradosso tipicamente nostrano, questo fenomeno continua a non essere affatto preso in considerazione, se non per esser oggetto di facili sarcasmi o d’inutili scene di vittimismo. Dai bamboccioni di Padoa Schioppa e di Brunetta, per finire con i choosy di Fornero, sembra quasi che ai giovani debba esser attribuita per intero la responsabilità del tracollo generazionale in cui l’Italia sta lentamente strangolandosi. Trattasi di una facile generalizzazione, strumentale all’esigenza, molto avvertita dal ceto politico italiano, di lavare i propri rimorsi di coscienza, che rischia oltre tutto di prestarsi a semplicistiche operazioni di deresponsabilizzazione delle stesse vittime, storicamente quanto mai inopportune in qualsivoglia contesto sociale. Si finisce in tal modo per occultare il reale quadro della situazione in cui, lungi dal poter scaricare il peso delle responsabilità sulle spalle dell’uno o dell’altro, sembra invece possibile poterlo distribuire equamente tra tutti i protagonisti di quest’impietosa vicenda. Un’analisi di questo fenomeno non può che prendere l’avvio dalle linee ideologiche adottate dalle forze politiche che si sono susseguite al potere negli ultimi vent’anni. E discutere d’ideologie è in questo caso quanto mai opportuno, dato che sul fronte della scala sociale e del mondo giovanile, ambedue gli schieramenti hanno dimostrato una totale assenza di concrete politiche, preferendo viceversa abbandonarsi ad obsoleti slogan, dietro cui celare una volontà di non cedere di un solo pollice davanti ad imprescindibili necessità di cambiamento, qualora si trattasse di rimettere in discussione status ritenuti immodificabili. Sotto questo profilo, il primato dev’essere indubbiamente riconosciuto al centrodestra. Nonostante le panzane narrate nel corso del ventennio berlusconiano, tutte prodighe di promesse per la prossima rivoluzione liberale, i partiti della destra italiana hanno confermato di caratterizzarsi per una netta propensione al conservatorismo economico e sociale, declinando una versione del liberismo di reaganiana memoria, inteso quale semplicistica demolizione dello Stato sociale, considerato un dannoso centro d’inutili sperperi, specie con riferimento al sistema di politiche di supporto ai ceti più disagiati. Peccato che nemmeno Reagan avesse mai sognato di appoggiare un meccanismo di corporazioni economico-sociali quale quello italiano, unico al mondo per il livello di autoregolamentazione e privilegio, e rivelatosi il principale elemento di mortificazione al merito ed alla competenza. Ne è derivato il paradosso di una destra italiana che, pur affermando d’esser liberale, è stata disposta, come la querelle della recente keggi sulle liberalizzazioni ha clamorosamente attestato, a sacrificare i più elementari principi di concorrenza e meritocrazia sull’altare del privilegio di casta. D’altronde, se il centrodestra ha dimostrato di ritenere superfluo lottare per un cambiamento realmente liberale, sinora i movimenti di centro-sinistra non hanno esitato anch’essi a mettere da parte la questione giovanile. Se è innegabile che tale area abbia supportato il mantenimento delle strutture a sostegno del diritto allo studio giovanile, ed abbia emanato, con il Decreto Bersani del 2007, il primo testo di legge teso ad aprire un mercato professionale quanto mai asfittico, è altrettanto evidente che esso non è stato capace di superare il morbo del “qualunquismo”, da cui è stato affetto negli ultimi decenni. L’ossessione per una presunta intangibilità di normative, quali quella dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, necessitanti invece di un adeguamento al mutato contesto storico e sociale, così come il compiacimento, troppo spesso dimostrato, per un egalitarismo ad ogni costo sfociato in una negazione del merito, hanno prodotto nella gioventù italiana guasti altrettanto profondi di quelli ingenerati dal conservatorismo del centro destra. È in un simile contesto, privo di qualsivoglia azione concreta tesa a supportare le giovani generazioni ed a permettere il loro ingresso nella società adulta, che si collocano gli infraquarantenni dell’Italia di oggi. Giovani uomini e donne che faticano a diventare grandi, finendo spesso per dover indossare i panni degli eterni Peter Pan, membri di una generazione chiamata a dover subire gli oneri di un benessere di cui ha visto ben poco. Eppure nemmeno loro sono esenti da colpe. Se confrontate con i coetanei del resto del mondo, le nostre nuove leve scontano gravi carenze di preparazione e di resilienza. Poco disposti ad impegnarsi nello studio, i giovani italiani sono tuttavia spesso convinti che un posto sia loro dovuto, in primis dallo Stato, dimenticando che proprio l’idea del pubblico impiego come agenzia di sistemazione ha condotto il nostro debito a vertici che saranno loro stessi chiamati a sopportare. Scarsamente disposti a far sacrifici e ad allontanarsi dalla propria città d’origine, essi dimenticano che è proprio sul sacrificio e la determinazione che si sono edificate le fortune dell’Italia del Boom. Sempre pronti ad indicare nel prossimo il capro espiatorio, sono quasi mai propensi a fare autocritica, o ad impegnarsi a lottare per il mutamento. Ciò premesso, è assurdo imputare loro la completa responsabilità del disastro degli ultimi anni. La scarsa competitività dei nostri giovani sul mercato internazionale è frutto di una scuola e di un’Università incapaci di rispondere alle esigenze dell’odierna realtà globale, dove un ruolo primario viene assegnato alla conoscenza delle lingue ed all’uso degli strumenti informatici e matematici, oltre che poco attente alla promozione del merito. Il prodotto è una società soffocata da lacci corporativi, che ritardano per anni l’ingresso nel mondo del lavoro. Si tratta del frutto di una classe politica che ha sprecato vent’anni di crescita economica sull’altare di pretestuosi conflitti ideologici, lasciando andare in malora una delle economie più ricche al mondo. Di fronte all’inevitabile impoverimento cui i giovani sembrano esser predestinati, s’impone allora la necessità di un’involuzione di rotta, sinora trascurata, ma ormai indefettibile se si voglia evitare la catastrofe greca. La questione giovanile deve cessare d’essere un facile strumento di campagna elettorale, pronto ad accantonarsi una volta vinte le elezioni di turno, per entrare invece a pieno titolo nell’agenda di governo. Senza scadere in un intervento straordinario, una risposta dovrebbe invece essere articolata in maniera organica, andando a fondo nelle questioni sopra esposte. Si deve promuovere una concreta attuazione delle riforme nel mercato del lavoro, eliminando realmente la piaga delle corporazioni e del precariato strutturale che sta lasciando senza futuro un’intera generazione, non senza abbandonare nel contempo l’idea di un posto fisso garantito per l’eternità, anomalia italiana che ci ha resi non competitivi agli occhi del mondo. Si deve dar corso ad una reale riforma dell’istruzione scolastica ed universitaria, capace non soltanto d’adeguare l’offerta formativa alle richieste del mercato globale, ma anche di abbattere le resistenze ad un controllo effettivo sull’efficienza del lavoro del corpo docente, anche a costo di spezzare gli inevitabili ostruzionismi dei sindacati. Sono riforme ormai ineludibili, pena l’implosione di un’intera generazione. E con questa sfida dovrà confrontarsi il socialismo italiano nel prossimo decennio. Il movimento è chiamato ad un compito delicatissimo, forse il più ingrato nella scena politica italiana, ma in cui potrà offrire una prospettiva socialdemocratica a generazioni cresciute nell’ignoranza di un’alternativa al binomio berluscononismo-comunismo. Un’offerta di tal tipo, che sappia coniugare la lotta contro le discriminazioni socio-economiche con la promozione della meritocrazia, è destinata a trovare grande accoglienza presso le nuove generazioni, purché venga tempestivamente tradotta in un concreto pacchetto politico. L’alternativa è inquietante, e già allunga i propri raggi inceneritori, presagi di una possibile nuova alba fascista. E costituirebbe un amaro epilogo per la storia repubblicana italiana, se il buon ragazzo di campagna, desideroso di conquistare il mondo, tornasse ad esser confinato tra le nebbie del mito.
GIUSEPPE GIGLIOTTI