Dall’ascesa al governo dei tecnici targati Luiss e Bocconi le frequenti voci che si levavano dai grandi quotidiani confindustriali per sostenere una drastica riforma in senso liberale dell’Università hanno acquisito tutta l’autorevolezza che viene dall’essere parte dell’Esecutivo: Giavazzi può ora tuonare contro lo spreco pubblico di soldi nel sistema universitario con l’incarico di consulente per la Spending Review, anziché essere solo un “misero” editorialista del Corrierone nazionale. Tuttavia, ciò non rende più credibili e meno in malafede molte loro prese di posizione, non ultima la frequente querelle sulle nostre troppe e troppo piccole università. Si tratta di un tema su cui, da Socialisti, non abbiamo complessi di inferiorità: la FGS ha da tempo denunciato le “bad practices” consistenti nel moltiplicare ad libitum corsi e sedi di laurea pur di dare uno sbocco a docenti che altrimenti rimarrebbero nella scia di qualche intoccabile barone. I rimedi che vengono però riproposti ciclicamente, ultimo nella lista dal rettore dello IULM, rischiano però di essere molto peggiori del male: il tipico refrain, che vi suonerà familiare perchè viene riproposto per qualunque problema italiano dalla Scuola alle imprese, è che tutto è troppo piccolo, e quindi è poco produttivo, sprecone e non attira finanziamenti esteri o privati. Quindi bisogna chiudere tutto quello che si può, e passare a Atenei (o imprese, o scuole, o quello che vi pare) più grandi e meglio finanziati. Ci potrebbero essere credenziali scientifiche per questa posizione, anche se recenti studi sulla natura del nostro sistema di piccole e medie imprese sembrano confermare l’impressione che anche il “piccolo” può innovare, specialmente se il “grande” è abituato a vivere di mazzette di Stato. Però che a dirci queste cose siano immancabilmente professori provenienti da costosi atenei esteri o privati, che fanno della selettività la loro bandiera, suscita qualche legittimo dubbio. Ritenete veramente credibile che un’università con 3000 studenti riesca a organizzarsi meglio di un mostro burocratico come l’Università di Roma – La Sapienza ? Ritenete veramente che docenti precari e ricercatori a rischio costante abbiano più possibilità di emergere in Atenei smisurati dove il numero degli studenti obbliga a spendere cifre enormi non in didattica, ma in personale amministrativo ? Sopratutto, ritenete credibile che il livello della didattica si alzi quando si viene costretti a fare lezione in piccoli anfiteatri, anziché in classi di 10, 20, 30, 40 persone ? Si tratta di evidenze talmente intuitive che i nostri non provano nemmeno a argomentargli contro: infatti, a ogni loro richiesta di sfrondare le sedi inutili si accompagna immancabilmente, a fianco della legittima richiesta di valutare i risultati degli Atenei, quella di liberalizzare le rette. A quel punto, la selezione d’entrata sarà assicurata dal conto in banca, e in bocca al lupo se sperate che La Sapienza o l’Unibo diventino Harvard e concedano borse di studio ai due terzi dei loro studenti. Ci viene spesso ripetuto che le nostre tasse sono tra le più basse in assoluto: questo è vero se consideriamo le salatissime rette anglosassoni, retaggio di un sistema universitario che prepara le elitès in una società fortemente dinamica ma anche fortemente classista, ma è clamorosamente falso se consideriamo il continente europeo, dove l’Università viene vissuta come veicolo di elevazione sociale di massa anche grazie all’eredità delle lotte del movimento operaio e socialdemocratico. E allora, cari Giavazzi e Alesina e Puglisi, perdonateci, saremo matti e spreconi, ma se a Parigi con una popolazione equivalente a quella di Roma ci sono ben sette sedi universitarie forse non ci serve accorpare ogni ateneo sotto i 10.000 studenti o giù di lì. Tanto più che, a norma di una legge emanata e poi subito dimenticata, sarebbe illegale avere sedi con più di 40.000 studenti. La verità è che, con tutte loro storture, i piccoli Atenei di questo paese rappresentano uno dei tanti aspetti di un sistema sociale ancora irrimediabilmente incapace di creare un vero Welfare State: così come il primo ammortizzatore sociale dell’Italia è la famiglia, anziché il reddito minimo garantito o il salario minimo orario, la prima borsa di studio a disposizione dei nostri ragazzi è diventata l’ateneo sotto casa. Iniziamo a lavorare a un piano di assegnazioni di patrimonio immobiliare pubblico alle sedi universitarie, per realizzare aule più umane e collegi per i fuorisede. Iniziamo a incentivare i nostri atenei a sviluppare col privato una partnership onesta, con fondazioni di supporto come quella creata dall’Unibo con l’Unicredit o con spin-off che colleghino le attività dell’ateneo col mercato. Iniziamo a razionalizzare l’offerta di corsi e di sedi, creando dei coordinamenti regionali tra Atenei afferenti a una stessa zona geografica per migliorare l’offerta e l’organizzazione. Ma per favore, non veniteci a dire che è nel nostro interesse vedere il professore col cannocchiale e ascoltarlo mentre parla col megafono. E se magari vi preoccupate di come finanziare l’istruzione universitaria e riattivare il merito e il dinamismo sociale, potremmo anche riflettere su una cosina chiamata “tassa di successione sui grandi patrimoni”. Pensateci, tra un paper sulla “austerità espansiva” e l’altro.
MANFREDI MANGANO